Sempre più piccole imprese scelgono di liquidare il TFR mensilmente in busta paga, come se fosse parte della retribuzione ordinaria. Una prassi apparentemente semplice e conveniente, spesso frutto di accordi “informali” con i lavoratori. Ma cosa dice la legge? E quali sono i rischi reali per le aziende?
TFR in busta paga: Una consuetudine diffusa ma irregolare
In molte realtà imprenditoriali, soprattutto tra micro e piccole imprese, si è consolidata nel tempo l’abitudine di inserire ogni mese in busta paga la quota maturanda di TFR, presentandola come un bonus netto aggiuntivo. Questa modalità, talvolta affiancata anche all’erogazione frazionata di tredicesima o quattordicesima, serve a costruire un “netto mensile” predeterminato, utile ad attrarre o trattenere personale.
Tuttavia, questa scelta viola la normativa vigente. Il TFR è per legge una prestazione differita e può essere erogato solo al termine del rapporto di lavoro, salvo alcuni casi eccezionali ben regolati. Non è sufficiente un accordo individuale per legittimare l’anticipo sistematico.
Cosa prevede la normativa: l’art. 2120 c.c.
Il trattamento di fine rapporto è disciplinato dall’art. 2120 del Codice Civile, che lo definisce come un diritto spettante al lavoratore subordinato alla cessazione del rapporto di lavoro, indipendentemente dalla causa (dimissioni, licenziamento, pensione, ecc.).
Il calcolo si basa su una quota pari a circa 6,91% della retribuzione lorda annua, rivalutata annualmente con una componente fissa dell’1,5% e una variabile legata all’inflazione. Le imprese con meno di 50 dipendenti possono gestire internamente il TFR, ma ciò non significa che possano erogarlo liberamente ogni mese.
Le uniche eccezioni ammesse riguardano le anticipazioni previste dalla legge, possibili solo se:
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il lavoratore ha almeno 8 anni di anzianità aziendale;
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le motivazioni rientrano tra quelle tassativamente previste (spese sanitarie straordinarie, acquisto/ristrutturazione della prima casa);
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l’anticipo non supera il 70% del TFR maturato;
- il datore può soddisfare solo un numero limitato di richieste all’anno.
Giurisprudenza e INL: no agli anticipi mensili
La Cassazione (ordinanza n. 4670/2021) è stata chiarissima: l’erogazione mensile del TFR non costituisce una legittima anticipazione, ma una riqualificazione indebita di quella somma in retribuzione ordinaria. Il datore di lavoro è quindi tenuto a versare i contributi (INPS, INAIL, ecc.) su queste somme.
Lo stesso principio è stato ribadito dall’Ispettorato Nazionale del Lavoro nella Nota n. 616/2025, che chiarisce come nessun accordo individuale o collettivo possa legittimare l’erogazione automatica e continuativa in busta paga del TFR, perché essa snatura l’istituto, trasformandolo in semplice componente retributiva.
Attenzione agli accordi scritti (e alle vertenze future)
Anche in presenza di un accordo firmato tra datore e lavoratore, il rischio non si azzera. Secondo la giurisprudenza, l’accordo è nullo se elude norme inderogabili, come quelle che tutelano la natura previdenziale del TFR. In più, il lavoratore potrebbe in futuro rivendicare il diritto al TFR integrale alla cessazione del rapporto, nonostante l’abbia già percepito mensilmente.
L’azienda si troverebbe così a doverlo pagare due volte: una come retribuzione mensile (sottoposta a contributi e imposte) e una alla fine del rapporto, con effetti disastrosi sul piano economico e legale.
Le conseguenze per l’azienda
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Sanzioni e ispezioni: gli ispettori del lavoro possono obbligare l’impresa a ripristinare gli accantonamenti, come da art. 14 del D.Lgs. 124/2004.
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Contributi e imposte: le somme vanno riqualificate come retribuzione e quindi assoggettate a tutti i contributi previdenziali e fiscali.
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Problemi di bilancio: il pagamento mensile del TFR altera la rappresentazione contabile del passivo aziendale. Il principio contabile OIC 31 richiede invece di indicare il TFR come debito a lungo termine, se non pagato entro l’esercizio.
- Tassazione svantaggiosa per il lavoratore: il TFR mensile è tassato con l’aliquota IRPEF ordinaria, mentre il TFR differito gode della tassazione separata, più favorevole.
Una parentesi: il TFR in busta paga era stato sperimentato
Va ricordato che tra il 2015 e il 2018 la legge di Stabilità aveva previsto un regime sperimentale che consentiva, su richiesta del lavoratore, di ricevere il TFR in busta paga. Ma era una norma temporanea, oggi non più in vigore, che prevedeva condizioni specifiche e comunicazioni formali a INPS e Agenzia delle Entrate.
Oggi vige nuovamente la regola generale: il TFR è una retribuzione differita e non può essere distribuito mensilmente in modo automatico.
Cosa possono (e devono) fare le imprese
Il ruolo dei consulenti è centrale: è fondamentale informare le aziende dei rischi e aiutarle a correggere le prassi irregolari. Alcune soluzioni praticabili possono essere:
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predisporre anticipi documentati, nel rispetto dei requisiti di legge;
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proporre al lavoratore l’adesione a fondi di previdenza complementare;
- costruire pacchetti retributivi trasparenti, con voci variabili reali, evitando forzature sul TFR.
TFR in busta paga: conclusione
Il TFR non è una voce flessibile della retribuzione. È una garanzia differita per il lavoratore, con una disciplina rigida a tutela della sua funzione previdenziale. Le imprese che ancora adottano la prassi dell’erogazione mensile in busta paga si espongono a rischi economici, sanzioni e contenziosi.
Adottare soluzioni legittime, chiare e sostenibili è non solo un dovere giuridico, ma anche una scelta strategica per proteggere l’impresa nel lungo periodo.
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